Pietro Aretino_Sonetti lussuriosi_libro primo_ son
VI
Tu m’hai il cazzo in la potta, e il cul mi vedi
e io veggio il tuo cul com’egli è fatto,
ma tu potresti dir ch’io sono un matto,
perch’io tengo le mani ove stanno i piedi.
– Ma s’a codesto modo fotter credi,
sei una bestia, e non ti verrà fatto;
perch’asssai meglio del fotter m’adatto,
quando col petto sul mio petto siedi.
– Io vi vo‘ fotter per lettera, Comare,
e voglio farvi al cul tante mamine
co le dita, col cazzo, e col menare,
e sentirete un piacer senza fine.
E so ben ch’è più dolce ch’il grattare
da Dee, da Duchesse e da Regine;
e mi direte al fine
ch’io sono un valent’uomo in tal mestiero…
Ma d’aver poco cazzo mi dispero.
VII
Ove il mettrete voi? Ditel‘ di grazia,
dietro o dinanzi? io vo‘ ‚l sapere,
perché farovi forse dispiacere
se nel cul me lo caccio per disgrazia.
– Madonna, no, perché la potta sazia
il cazzo sì che v’ha poco piacere,
ma quel che faccio, il fo per non parere
un Frate Mariano, verbi gratia.
Ma poi ch’il cazzo in cul tutto volete
come vogliono savi, io sono contento
che voi fate del mio ciò che volete.
E pigliatelo con man, mettetel‘ dentro:
che tanto utile al corpo sentirete,
quanto che gli ammalati l’argomento.
E io tal gaudio sento
a sentire il mio cazzo in mano a voi,
ch’io morirò, se ci fottiam, fra noi.
VIII
E saria pur una coglioneria
sendo in voglia mia fottervi adesso,
avervi col cazzo nella potta messo,
del cul non mi facendo carestia.
Finisca in me la mia genealogia!
Ch’io vo‘ fottervi dietro, spesso, spesso,
poiché gli è più differente il tondo dal fesso
che l’acquata dalla malvasia.
– Fottimi e fa di me ciò che tu vuoi,
in potta, in cul, ch’io me ne curo poco
dove che tu ci facci i fatti tuoi.
Ch’io per me nella potta, in culo ho il foco,
e quanti cazzi han muli, asini e buoi
non scemeriano nella mia foia in poco.
Poi saresti in dapoco
a farmelo all’antica tra le cosse,
ch’anch’io dietro il faria, se uomo fosse.
IX
Questo è pur un bel cazzo lungo e grosso.
Deh! se l’hai caro lasciamelo vedere
– Vogliam provare se potete tenere
questo cazzo in la potta, e me addosso.
– Come, s’io vo‘ provar? come, s’io posso?
Piuttosto questo che mangiare o bere!
– Ma s’io v’infrango poi, stando a giacere,
farovi mal. – Tu hai ‚l pensier del Rosso,
Gettati pure in letto e nello spazzo
sopra di me, che se Marforio fosse,
o un gigante, io n’averò sollazzo,
purché mi tocchi le midolla e l’osse
con questo tuo divinissimo cazzo
che guarisce le potte dalla tosse.
– Aprite ben le cosse…
Che potrian delle donne esser vedute
di voi meglio vestite, ma non fottute.
X
Io ‚l voglio in cul. – Tu mi perdonerai,
o Donna, non voglio far questo peccato,
perché questo è un cibo da prelato,
ch’ha perduto il gusto sempre mai.
– Deh! mettetel‘ qui! – Non farò! – Sì, farai.
Perché? non s’usa più da l’altro lato,
Id est in potta? – Sìm, ma egli è più grato
il cazzo dietro che dinanzi assai.
– Da voi io vo lasciarmi consigliare
il cazzo è suo, e se ‚l vi piace tanto,
com’a cazzo gli avete a comandare.
– Io l’accetto, ben mio: spingel‘ da canto
più su, più giù, e va senza sputare.
O cazzo buon compagno, o cazzo santo!
– Toglietel‘ tutto quanto.
– Io l’ho tolto entro più che volentiere,
ma ci vorrei stare un anno a sedere!
XI
Apri le coscie, acciò ch’io vegga bene
il tuo bel culo e la tua potta in viso;
culo da far mutar un cazzo d’aviso!
Potta che i cuori stilli per le vene.
Mentre ch’io vi vagheggio egli mi viene
capriccio di pasciarvi a l’improviso,
e mi par esser più bel che Narciso
nel specchio ch’il mio cazzo allegro tiene.
– Ai ribalda, ai ribaldo in terra e in letto!
Io ti veggio, puttana! e t’apparecchia,
ch’io ti rompa doi costole del petto.
– Io te n’incaco, franciosata, vecchia,
che per questo piacere arciperfetto
intrarei in un pozzo sanza secchia.
E non si trova pecchia
ghiotta dei fiori, com’io d’un nobil cazzo,
e no ‚l provo ancho, e per mirarlo sguazzo.
XII
Marte, maledettissimo poltrone!
Così sotto una donna non si reca,
e non si fotte Venere alla cieca,
con assai furia e poca discrezione.
– Io non son Marte, io son Hercol Rangone,
e fotto qui che sete Angela Greca;
e se ci fosse qui la mia ribeca,
vi sonerei fottendo una canzone.
E voi, Signora, mia dolce consorte,
su la potta ballar faresti il cazzo,
menando il culo in su, spingendo forte.
– Signor sì, che con voi, fottendo, sguazzo,
ma temo Amor che non mi dia la morte,
colle vostr’armi, essendo putto e pazzo.
– Cupido è mio ragazzo
e vostro figlio, e guarda l’arme mia
per sacrarle alla dea Poltroneria.