.Orchidea elvetica – prima parte.
Sì, ero solo. La mia lunga e temporalesca relazione con Stefania era finita e la quiete dopo la tempesta mi lasciò in cuore una solitudine e un senso di inadeguatezza più unici che rari.
La nostra storia mi aveva isolato da ogni legame d’amicizia e progressivamente persi i contatti con tutti i miei compagni di avventure. L’amore di Stefania germogliava velenosa gelosia verso i miei affetti, tant’è che soffocai nell’impenetrabile bolla che ella aveva creato intorno al nostro rapporto. Poi la bolla esplose e annegammo nella bile tentando di affogarci a vicenda e dimenticando in un battito d’ali d’avvoltoio tutto ciò che di buono c’era stato tra di noi.
In questi momenti stare soli é un bypass per i pensieri avvilenti, per cui la presenza umana del Blues to Bop di Lugano avrebbe potuto distrarre un po’ la mia anima alla deriva.
Mi soffermai in una piazzetta a sedare l’amarezza facendomi assordare dalla frizzante sezione fiati di una band statunitense intenta a sciorinare un rhythm & blues figlio del voodoo .
Facendo una panoramica sugli astanti, intravedo nella semi-oscurità un bell’esemplare di femmina.
Si distingueva nel nugolo di spettatori jazzomani per la carnale elementarità del suo aspetto hippie chic, pienamente in conflitto con il siliconato puttaneggiamento dalla fica inaridita che fino a poco prima marciava dinanzi ai miei occhi mentre, seduto su di una panchina, rilassavo le membra sfinite dalla settimana di lavoro.
Ella era una graziosa quarantenne : una c a s c a t a di capelli lisci e corvini circondavano un viso armonioso, su cui un paio di occhialetti da professoressa sexy poggiavano su di un minuto naso all’insù. Una manciata di graziose efelidi campeggiava sul naso estendendosi fin sotto gli occhi, rendendole il viso agrodolcemente procace.
Il suo abbigliamento leggermente ampio lasciava trasparire poco della sua fisicità, ma le caviglie fini e i perfetti piedi snelli dalle ben curate unghie smaltate di nero, erano testimoni anatomici di un fisico sottile e aggraziato.
Il primo pensiero che mi sfiorò la mente è che avrei voluto carezzare quelle meravigliose estremità, sentire la pianta del metatarso sul mio petto per poi veder risalire l’intero piede verso l’alto, fino a raggiungere la mia bocca con le dita. Avrei poi premuto il mio viso contro la pianta del suddetto per baciarlo ripetutamente su tutti i lati fino a raggiungere progressivamente la caviglia, le cosce e il suo sesso intriso di umida eccitazione.
Di risposta il mio pene rigonfiò prepotentemente la patta dei pantaloni. Dovetti ringraziare il fato che la camicia di cotone nero che indossavo andava a coprire quell’imbarazzante turgore genitale.
Risalii velocemente con lo sguardo dai piedi verso l’alto , notando una piccolo seno i cui capezzoli pungevano una camicetta di cotone e il cuore mi sobbalzò con una serie di intense diastole quando mi accorsi che lei mi stava osservando.
Le sue mani sottili reggevano un bicchiere di plastica quasi a secco di birra e i suoi brillanti occhi verdi puntavano i miei con un’ espressione indecifrabile.
“Ecco!” pensai. “Avrà pensato che sono il solito povero arrapato. Se la sfiga potesse ribattezzarsi, sceglierebbe il mio nome.”
Voltai lo sguardo verso la band e sentivo il viso accaldato. Speravo di non essere arrossito, perché la cosa mi avrebbe reso ancor più beota di quel che madre natura già mi aveva reso.
La band attaccò un altro pezzo e la bella voce della cantante nera dribblava il mio imbarazzo e mi concentrai sulla musica. Inaspettatamente il combo se ne uscì con uno scodinzolante pezzo swing, il cui sax tenore faceva il bello e cattivo tempo sul resto degli strumenti, annunciandosi a gran decibel ai nostri timpani.
Mi tornò in mente lei, che stava poco dietro di me e non resistetti dal rivolgerle lo sguardo. Eccezionalmente mi stava osservando anche lei e il suo corpicino magro si muoveva sinuoso a ritmo di swing, seducendo il mio sguardo di maschio inebetito da quell’ afrodiasiaco danzare.
Successivamente, i nostri sguardi continuarono ad incrociarsi e avevo la sensazione che tra poco si sarebbe avvicinata per parlarmi. Il mio istinto infatti non mi aveva tradito.
Dopo una serie impacciata di frasi scompaginate su quanto la band appena esibitasi avesse offerto un buono spettacolo , seguì la classica formula verbale sociale “…e comunque io mi chiamo Dario, piacere”, parlammo ancora un po’ finché ella mi invitò a bere qualcosa in un Café li vicino.
Per il fatato effetto del caffé che faceva da filtro magico relazionale accelerando i miei processi mentali, la parlantina si sciolse come le trecce di un cavallo, i sorrisi ampliarono sempre di più e iniziammo a flirtare. Lei era veramente brillante e il suo senso dell’umorismo sagace e spassoso, era una dote che poche sue simili padroneggiano.
Passata la mezzanotte, lei pregò di accompagnarla : “… all’auto che ho parcheggiato in una zona un po’ isolata?” e cavallerescamente adempii al mio dovere.
Giungemmo alla sua auto e ci fermammo dinanzi la portiera del passeggero: il mio sesto senso di maschio mi suggeriva di tentare l’arrembaggio con un bacio quella stupenda creatura.
Un tremore diffuso terremotava le mie membra e un fiume di emoglobina inondava le mie parti basse sul ritmo di un cuore che martellava una rumba nel petto.
Approcciare una donna in queste fasi, mi fa sentire come un equilibrista sospeso tra due grattacieli: ogni passo sbagliato, ogni mossa avventata significa farsi risucchiare dalla forza di gravità che ti spalmerà al suolo. Parafrasato significa essere respinto a due mani, vedere una testa scansarsi sdegnata sui cui un’espressione torva al gusto di “checazzotisaltainmente?!” ti trapassa a punta di coltello .
Mi avvicinai a lei che dava le spalle all’auto, appoggiata con la schiena al mezzo. Le presi con non poche cardio-scariche elettriche la piccola mano di ninfetta di un metro e sessantacinque che fino a quel momento mi aveva ubriacato di seduzione.
Lei ricambiò la presa, serrando il piccolo pollice sulle mie mani e le parole che mi uscivano di bocca erano una balbuzie scomposta d’afasie che servivano solo a riempire quell’infinito momento che vede la mia mano prenderle la nuca e le mie labbra spalmarsi come un fiocco di neve bollente morbidamente sulle sue.
Lei ricambiò e scostando la mia mano dal cranio, avvolse il mio collo con entrambe le braccia, inclinando la testa su un lato e costringendomi di conseguenza a posarle le mani in vita.
Non so stimare per quanto andammo avanti, ma in un simile attimo il tempo merita di restare sulla soglia.
I nostri corpi attaccati in un caldo corpo a corpo , si sondavano a vicenda: il suo seno premeva contro il mio petto e le mie mani scivolate sui suoi glutei, stringevano vigorosamente .
Fu lì che lei mi fermò e mi preparai all’impatto di una sberla incombente … (continua)